Madison Morrison's Web / Particolare e Universale

Capitolo terzo

L'ALLEGORIA E L'EPICA
OCCIDENTALE

Perhaps we have so much trouble [understanding allegory] because we still think of poetry as an end in itself rather than as a medium. The purpose of allegorical rhetoric is to create a particular experience within a person. The words of the poet stimulate this experience. Partial as it is, the logos prophorikós [the spoken word] requires the auditor to complete the poem himself, and in the process he enters into the thought-modes of the poet. He sees through the poet's verbal veil into the poet's mind and there finds the truth, but a truth which does not correspond to our notions of truth. He finds not a fact or a concept but a way of looking at things which reveals to him his own divinity. As if he saw lightning flash in a clear night sky, he suddenly perceives that he, simply by being man, transcends his own world, and the more he thinks mythologically, the less he is bound by the chains of contingency.
(Forse abbiamo così tanti problemi [a capire l'allegoria] perché ancora consideriamo la poesia come un fine in se stesso, anziché come un mezzo. Lo scopo della retorica allegorica è di creare un'esperienza particolare all'interno di una persona. Le parole del poeta provocano questa esperienza. Limitato com'è, il lógos prophorikós [la parola pronuciata] richiede che l'uditore completi la poesia da solo, e nel processo egli entra nei modi di pensare del poeta. Vede attraverso il velo verbale del poeta e penetra nella sua mente, dove trova la verità, ma una verità che non corrisponde alle nostre nozioni di verità. Egli non trova un fatto o un concetto, ma un modo di vedere le cose che gli rivela la propria divinità. Come se stesse osservando il bagliore di un lampo nel cielo notturno, all'improvviso percepisce che, grazie al suo essere uomo, egli trascende il proprio mondo e, più pensa in modo mitologico, meno è vincolato dai ceppi della contingenza.)
Michael Murrin

Persuasive allegory does not duplicate … It releases a counterplay of imagination and thought by which each becomes an irritant to the other, and both may grow through the irksome contact.
(L'allegoria persuasiva non raddoppia … Essa rilascia un contro-gioco d'immaginazione e pensiero attraverso cui ognuno diviene un fastidio per l'altro, ed entrambi possono crescere mediante il fastidioso contatto.)
Edgar Wind

Allegoria does not use metaphor; it is one. By definition a continued metaphor, allegoria exhibits the normal relation of concretion to abstraction found in metaphor, in the shape of a series of particulars with further meanings. Each such concretion of sensual detail is by virtue of its initial base already a metaphor.
(L'allegoria non utilizza la metafora; lo è. Per definizione una metafora continua, l'allegoria mostra la normale relazione tra la concretizzazione e l'astrazione che si trova nella metafora, sotto forma di una serie di particolari con significati supplementari. Ogni concretizzazione del dettaglio sensuale è, in virtù della sua base iniziale, già una metafora.)
Rosemund Tuve

Oltre all'allegoria e alla metafora, al pensiero e all'immaginazione - il lettore attento l'avrà notato - le nostre epigrafi hanno introdotto anche i termini mito, divinità, verità ed esperienza; concretizzazione e astrazione, il particolare e, implicitamente, l'universale. Assieme al titolo hanno sollevato alcune questioni circa il rapporto tra il poeta, la poesia, l'uditore e, per esteso, il lettore di epica. Mi è sembrato meglio scoprire queste carte fin dall'inizio. Torneremo a trattare questi nostri termini con più considerazione quando ce ne sarà occasione, anche se in questo saggio nessuno di essi riceverà una spiegazione definitiva. Per farlo lasciamo che il nostro tema, l'elemento allegorico, preceda il nostro soggetto, l'epica occidentale. Iniziamo con la nostra tesi secondo cui l'epica occidentale, dall'inizio alla fine, è allegorica. Questa visione non è tanto nuova quanto neoclassica. Nel suo Traité du poëme épique, del 1675, riguardo all'azione epica, Le Bossu dice che "è universale, è imitata, è simulata e contiene allegoricamente, una verità morale". Questa verità, egli continua, è velata dietro un'azione che, sebbene "sia inventata dall'autore … sembra esser presa da una qualche storia e favola". Naturalmente, la favola è una storia di fantasia che possiede una morale. Per Le Bossu, la morale e l'allegoria sono praticamente la stessa cosa. Non tutte le epiche possiedono forse una morale? Non sono forse tutte allegoriche? Che cosa è successo alla nostra idea secondo cui l'allegoria necessita di uno speciale macchinario retorico, una "metafora continuata" (Quintiliano), una "sequenza di metafore" in cui "il senso delle parole è totalmente alterato" (Cicerone), un distintivo grado di astrazione, come nella concezione moderna della forma?

Il fatto è che abbiamo fatto progressi nella comprensione dell'allegoria, che ora consideriamo come un modo, e non una forma; come un instabile "counterplay" ('contro-gioco') di termini, e non un'espressione omogenea (si veda Edgar Wind: "L'allegoria retorica ('persuasive') non si duplica … Essa rilascia un contro-gioco d'immaginazione e pensiero attraverso cui ognuno irrita l'altro, ed entrambi possono svilupparsi grazie al contatto irritante"); come un discorso difficile da schematizzare, e non come i quatre-sens della teoria medioevo-rinascimentale. Jon Whitman osserva: "The more allegory exploits the divergence between corresponding levels of meaning, the less tenable the correspondence becomes. Alternatively, the more it closes ranks and emphasizes the correspondence, the less oblique, and thus the less allegorical, the divergence becomes" ('Più l'allegoria sfrutta la divergenza tra livelli corrispondenti di significato, meno plausibile la corrispondenza diviene. Alternativamente, più essa serra i ranghi ed enfatizza la corrispondenza, meno obliqua, e quindi meno allegorica, la divergenza diviene'). L'allegoria comincia ad apparire come letteratura stessa, e l'esegeta ermeneutico come il critico moderno. Alcuni saranno d'accordo, altri in disaccordo: se ogni cosa è allegoria, allora niente è allegoria.

Tuttavia, ricordiamoci che, in questo saggio, il nostro soggetto non è la letteratura, ma l'epica occidentale. In questa tradizione cos'è allegorico, e cosa non lo è? Oppure, per capovolgere la domanda, chi all'interno della tradizione si considererebbe allegorico, e chi no? Dante si considera allegorico. E Byron? E Omero? Nessuno dei due si è pronunciato riguardo all'argomento. Allora giriamo la domanda in un altro modo. Cos'è che manca in Dante da altre prospettive? Dal punto di vista preclassico, egli non è mitico; dal punto di vista moderno, egli non è storico. Oppure lo è? Auerbach lo descrive come "il primo a configurare ciò che l'antichità aveva configurato in un modo alquanto diverso e il medioevo non aveva configurato affatto: l'uomo non come un remoto eroe leggendario … ma come noi lo conosciamo nella sua realtà storica, l'individuo concreto nella sua unità e interezza". Per quel che riguarda la sua fede cristiana, non è anch'essa mitica? Per Gregory Nagy, il mito rappresenta una "un'espressione collettiva", "un'espressione che la società stessa giudica vera e pregiata. Dal punto di vista della data società che esso articola, il mito è la realtà primaria". Nagy ha in mente la società di Omero, ma potrebbe anche parlare di quella di Dante. Dante, allora, è mitico, storico e allegorico. Inoltre, poiché rappresenta la sua esperienza storica, può anche esser chiamato esperienziale.

Cos'è allora che separa il mito, la storia, l'allegoria e l'esperienza? Molte cose: non sono affatto identici. Eppure, nell'espressione epica, essi si assimilano. Omero e Virgilio, Dante e Ariosto, Spenser e Milton, sono tutti scrittori mitici, eppure trattano tutti soggetti storici; tutti loro rappresentano l'esperienza, eppure sono tutti allegorici. Questa inclusività è una caratteristica che distingue l'epica dagli altri stili letterari. Inoltre, possiamo dire che ogni epica di rilievo è sacra, cosmologica, geografica e filosofica, in vari gradi, naturalmente. È questa variazione di grado che crea i sottogeneri e che rende lo stile più rilevante così resistente a qualunque definizione unitaria. Potremmo esplorare tutti questi aspetti dell'epica. Invece ci concentreremo solo su uno di essi, quello allegorico; ma nel farlo dobbiamo porre tale elemento in relazione agli altri. L'epica occidentale è un soggetto molto vasto. Ci limiteremo a esempi tratti dalla Grecia preclassica e da Alessandria; dall'antica Roma; dall'Italia medievale; dall'Italia rinascimentale; dalla Spagna del XVII secolo; dall'Inghilterra del XVI, XVII e XIX secolo.

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Iniziamo con Omero. soggetto all'allegorizzazione da parte di scoliasti, filosofi ateniesi, critici romani, neoplatonisti e commentatori medievali, rinascimentali e posteriori, Omero continua sempre a suscitare la questione se il testo sia allegorico in sé per sé. Il lettore moderno, che affronta l'opera omerica in forma di romanzo, film o serie televisiva, è fin troppo incline a considerare Omero fondamentalmente naturalistico, un romanziere dai meccanismi divini, qualche simbolo allegorico, e una certa dose di favolosa improbabilità (un mostro con un occhio solo, un cavallo che parla). Pertanto, egli è alquanto indifferente alla grande tradizione dell'allegoresi, e istintivamente rifugge dall'idea secondo cui Omero stesso era un allegorista. Rabelais disse: "Omero sognò le assurdità non più di quanto Ovidio, nelle sue Metamorfosi, sognò i Vangeli". In un'affermazione più equilibrata riguardo agli esegeti filosofici, Seneca osserva: "Nessuna delle loro dottrine è in Omero, semplicemente perché sono tutte lì, a contraddirsi l'un l'altra".

Allora cosa c'è , e come proviamo che c'è? Il lettore allegorico moderno di Omero si trova nella stessa posizione dell'insegnante di studenti analfabeti. Deve convincere la propria audience che ciò che arriva agli occhi non è tutto ciò che c'è, e farebbe meglio a farlo senza ricorrere alla propria autorità. Con Omero inizia non solo la poesia ma anche la lettura critica. Ammettiamo allora, in tutta franchezza, che i confini tra struttura mitica, valore storico, significato allegorico e contenuto tematico non sono così facili da tracciare. Ciò che per un lettore è mitico, per un altro è storico (la caduta di Troia preannuncia la supremazia dell'Occidente sull'Oriente?). Allo stesso modo, ciò che a un lettore può apparire allegorico, a un altro potrebbe sembrare semplicemente tematico. E ancora, un altro lettore potrebbe considerare allegorica l'Odissea ma non l'Iliade. Per quel che riguarda le intenzioni di Omero, al lettore potrebbe apparire alquanto improbabile che un poeta di tale maestria, alla fine di una tradizione poetica così lunga, possa esser stato ignaro della propria portata allegorica. Inoltre, potrebbe esser stato capace di articolare letture allegoriche della sua opera totalmente aliene ai giudizi successivi. Dopotutto, cosa sappiamo della storia di questa leggenda tra il periodo dei suoi ipotetici eventi e il suo adattamento omerico?

Partiamo da dove è giunto Aristotele, ossia dai suoi tre termini influenti: mythos (mito), plasma (finzione) e istoria (storia), tutti contrapposti alla realtà, o all'esperienza attuale. Omero è mitico? Secondo Nagy: "la storia primaria dell'epica greca, la guerra di Troia, è auto-ispirata dal principio sociale indoeuropeo del controbilanciamento tra lode e biasimo ("praise and blame")", il cui paradigma si trova nel giudizio di Paride che "richiese il biasimo ("blaming") delle dee Era e Atena e la lode ("praising") di Afrodite". Da qualche altra parte Nagy osserva che: "Il mito nelle società in cui esiste come tradizione vivente, non deve esser confuso con la finzione". Ma nelle mani di Omero il mito è una finzione. Non è anche un'allegoria? Certamente lo è. È anche un evento storico? È perlomeno leggendario, una parte dell'epos ereditato da Omero. Così il giudizio di Paride si adatta in un certo modo a tutte e tre le categorie di Aristotele.

Perciò, si può affermare che Omero è mitico; ma è anche religioso? Era, Atena e Afrodite appaiono non solo nel paradigma di base, ma anche come autorità centrali lungo tutto il poema epico. Nella descrizione di Senofane, Zeus assomiglia a un dio monoteista: "egli rimane nello stesso luogo … ma senza alcuna fatica scuote tutte le cose con la sola forza del pensiero". In Nausicaa, Odisseo intravede Artemide, la figlia di Zeus. Patroclo dice a Ettore di esser stato ucciso da Apollo e non da lui; in Ovidio, Nettuno esorta lo stesso dio a uccidere Achille.

Se Omero è religioso, l'Iliade è sacra? In base all'esempio di Tasso o Milton, sì, lo è. Cosmologica? Certamente lo scudo di Achille ne è una dimostrazione. Allora, non è anch'egli allegorico? Cosa dobbiamo fare per dimostrarlo? Senza esaminare a fondo ogni libro, analizziamo solo alcuni punti importanti. Pur non essendo teologico come un Dante o un Milton, Omero solleva questioni sul rapporto tra gli dèi e gli uomini in una maniera che a volte suggerisce assunti cristiani. Qual è il motivo di tanta sofferenza, passata, presente e futura? Si chiede il libro III. Forse il rapimento di Elena non è altro che un'ulteriore versione del peccato originale, forse il satanico Paride non è altro che un'ulteriore versione dell'eccessivamente innamorato Menelao, ed Elena, con il suo orgoglio e il suo dolore, forse rappresenta un'altra Eva. I doni degli dèi (la bellezza di Elena e il fascino di Paride) sono una specie di fato, che non deve esser cacciato via. La volontà degli dèi prevale sulle considerazioni concrete e morali. Gli allegorici Menelao e Paride, marito responsabile e principe scapestrato, dopo aver deciso di duellare, sono incapaci di risolvere un conflitto più grande del loro, poiché Elena (la passione) ne impedisce la risoluzione. Essa, dice Omero, è come una dea. Più importante del suo ruolo è quello di Zeus; ancor più grande del suo è il ruolo del Fato. Paride e Menelao più che combattere, mettono in mostra i loro temperamenti allegorici. Come in Spenser, l'allegoria omerica è complessa, psicologica e anche morale e teologica.

Il libro IV descrive un Consiglio degli Dèi mediante un parallelo allegorico con un precedente consiglio degli uomini. Nel libro V, Atena, Afrodite, Apollo e Ares intervengono nella battaglia. Verso la metà dell'azione, Diomede attacca Afrodite; abbandonato dalla madre, Enea viene soccorso da Apollo, che gli concede un'immagine brillante. Virgilio deve aver studiato questo emblema con attenzione estrema: il principe troiano come apostolo della civilizzazione. Il libro VI, come i libri I, IX, XVI e XXIV, tutti estremamente naturalistici, abbassa il discorso teologico precedente a un livello esperienziale, appena Diomede chiede a Glauco perché gli esseri umani vanno in guerra. Nel libro VII, pieno di episodi allegorici riguardanti la corda e la bilancia d'oro di Zeus, gli dèi intervengono ancora una volta. Cosa sono se non allegorie del mondo invisibile, delle sue modalità psicologiche, scientifiche e cosmiche: energia (Apollo), cultura (Artemide), conflitto (Ares), saggezza (Ermes), fecondità (Era), potere (Zeus), amore (Afrodite), tempo (Cronos)? Nei libri XIV e XV seguono episodi ancor più allegorici: l'amoreggiamento di Zeus, fomentato da Era, a sua volta istigata dal sonno e da Afrodite; l'immobilizzazione dei piedi di Era con le incudini. La conclusione del libro XVIII ci offre l'episodio più allegorico di tutta l'Iliade, una cosmologia in miniatura: la Terra, il cielo e l'acqua del mare; il Sole, la Luna e le costellazioni; il fiume Oceano, tutti inclusi in un'opera d'arte così grandiosa e, nel suo contesto, incongrua, che l'Ulisse di Ovidio è spinto a chiedere ad Aiace perché Teti abbia mai pensato di armare un soldato così rozzo e stolto come suo figlio con tali vestigia celesti. Così viene rispettato il principio allegorico della connessione e discordanza episodica.

Verso la fine dell'Iliade, gli elementi allegorici aumentano. Il libro XXI ci offre una battaglia elementale tra l'acqua e il fuoco, assieme a una serie di parodie a più livelli, dèi emblematici che si preparano a combattere alla maniera degli uomini: Atena contro Ares, Apollo contro Poseidone, Ermes contro Leto, Era contro Artemide, Efesto contro Xanto, tutti che preannunciano a un livello inferiore la battaglia finale del semidivino Achille e il mortale Ettore. Solo le figure mistiche di Zeus e Afrodite si astengono dalla lotta, come se volessero distinguersi dalle loro controparti minori. Nel libro XXIII, i giochi atletici fungono da metafora pacifica della lunga azione marziale del poema. Il libro XXIV, con le sue scene tipo (apparizioni divine, implorazioni, funerali), coinvolge Ermes nel suo scenario di rappacificazione. Portando a termine il suo poema dell'ira (le cui altre figure allegoriche includono: la paura e il terrore; l'odio, la confusione e la morte; l'Ate, o la cieca follia), Omero considerò Ermes, il simbolo della saggezza, come un ponte verso la più ermetica Odissea? Certamente. Perché, come Achille appare alla fine dell'Odissea, così la ricomparsa di Odisseo viene predetta alla fine dell'Iliade.

L'Iliade e l'Odissea: di un intero ciclo di poemi epici, perché solo questi due sono sopravvissuti? Perché la mente eroica integra e completa il corpo eroico. Allo stesso modo, Penelope (fedeltà) controbilancia Elena (infedeltà). Sono questi gli accoppiamenti allegorici di Omero, diversi dalle semplici opposizioni modali che equilibrano le due opere e le distinguono fra loro (tragedia contro commedia; la semplice e patetica Iliade di Aristotele contro la sua complessa ed etica Odissea). Come l'Iliade, anche l'Odissea è teologica, come rivela il predominio di Atena su Era e Afrodite.

Lungo la storia, l'Odissea è stata molto più soggetta all'allegoresi di quanto lo sia stata l'Iliade, e il motivo non è difficile da trovare: Odisseo stesso nella sua narrativa (libri 9-12) è un palese allegorista, e Omero, anche se molto più sottilmente, non ne è da meno. Inoltre, Omero stesso è impegnato nell'allegoresi, rielaborando, raffinando e allegorizzando materiali più rozzi e approssimativi. L'Odissea fa palesemente riferimento a molti elementi presenti nell'Iliade, e può persino esser considerata un'allegoresi del tema dell'allontanamento e del ritorno espresso nell'Iliade.

Sebbene si occupi anche della famiglia, dell'amicizia e del principio di leadership, l'Odissea si concentra principalmente sullo spirito solitario (in letture più allegoriche, l'anima). Laerte, un figlio unico, è il padre di un figlio unico, il nostro eroe, a sua volta padre di Telemaco, un altro figlio unico. Pertanto, l'eroe allegorico di Omero è l'uomo individuale; la sua tentazione, parallela a quella di Paride, provoca una resistenza eroica: contro le magie della Circe, le canzoni delle Sirene, la tentazione degli armenti di Elio. L'ultimo episodio è una parabola del peccato originale, una tentazione preannunciata all'inizio del poema, della quale cadranno vittime i compagni del leader, ma non il leader stesso. Allo stesso modo, anche Penelope resiste alla tentazione, sebbene le sue inservienti non ci riescano. Lei fa parte di un quartetto di figure femminili allegoriche che include Calipso, Circe e Nausicaa. Anche Odisseo si trova a far parte di un quartetto allegorico che include Agamennone, Menelao e Aiace. Questo tipo di simmetria non è naturalistica.

Gli elementi allegorici nella Telemachia sono probabilmente sottovalutati. Quando Menelao parla di Proteo con Telemaco, Eraclito riconosce in questa figura l'Origine dell'Universo (e noi, una dimensione cosmologica dell'Odissea); per Bacone, Proteo rappresenta la "Materia Produttiva" ('Productive Matter'); secondo una visione comune, rappresenta la verità. Chi siamo noi per dire che Omero era inconsapevole di tali significati allegorici? Nel libro 5, come uno dei cavalieri di Ariosto, Odisseo abbandona Calipso, l'Occultatrice, per affrontare una serie di incontri più palesemente allegorici con Ermes, Poseidone, Leucotea e Atena. Nel libro 6, egli posa gli occhi su Nausicaa, secondo alcune descrizioni lo specchio dell'anima. L'intero episodio di Scheria rappresenta un topos allegorico, un ambiguo Paradiso, spesso imitato nella successiva tradizione letteraria. Su quell'isola, Demodoco (il cui nome significa "Popolare", ed è opposto al semplicemente "Famoso" Femio, l'altro bardo del poema) loda in versi la disputa tra Achille e Odisseo in un'epitome allegorica del corpus omerico. Dopo un intermezzo ludico (i giochi sono scalettati a seconda del loro significato), segue una canzone dedicata ad Ares e Afrodite, un'altra allegoria inserita, interpretata cosmologicamente dai neoplatonici, e certamente un'altra metafora per i temi dell'Iliade e dell'Odissea.

Lo stesso Odisseo canta soggetti allegorici come i Ciclopi ("Occhio circolare"), le Simplegadi ("Rocce cozzanti") e Nemo ("Nessuno"). Il lettore moderno tende a considerare la seconda metà del poema fondamentalmente naturalistica, ma non dobbiamo dimenticarci che viene introdotta da un viaggio in una barca magica; l'incontro dell'eroe con la dea della saggezza; e la sua trasformazione in un mendicante nel proprio regno. Questi temi romanzeschi sono facilmente allegorizzabili, come lo sono le riunioni di Odisseo con Eumeo e Penelope (sopra la superficie terrestre), con Achille e Agamennone (nella seconda discesa sotto terra); allo stesso modo, la vittoria del bene sul male termina un'estesa allegoria dell'intelligenza, della fedeltà e della lealtà contro le forze dell'anti-mente (Antinoo), della duplicità (Anfimoo) e della perfidia.

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Quando l'epica classica è indubbiamente allegorica, come nella Teogonia, non c'è bisogno di aprire alcun dibattito. L'unica questione è vedere se, e in che punto, l'allegoria di Esiodo giunge a termine. Oltre agli elementi cosmologici come la legge, la saggezza e la pace, alle condizioni corporee come il sonno, la morte e la vecchiaia, alle azioni morali come il castigo e il conflitto, Esiodo include sia le divinità principali, sia quelle minori come le muse, i giganti, le ninfe e le parche. Al termine del poema, egli rivolge tutto il suo poema allegorico in direzione di Giasone, Odisseo, Anchise ed Enea. Dobbiamo supporre che per Esiodo questi eroi erano meno allegorici degli altri suoi personaggi? Per alcuni lettori c'è un'altra questione da risolvere: la Teogonia è veramente un'epica? Gli antichi pensavano di sì, come lo credevano anche gli appartenenti alla tradizione allegorica. Il fatto che noi, al giorno d'oggi, prendiamo persino in considerazione una tale domanda, è un segno di quanto abbiamo allontanato la definizione del genere epico dall'espressione allegorica, per avvicinarla alla narrativa naturalistica.

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L'intera impresa alessandrina di miniaturizzare, ironizzare e modernizzare l'epica rappresenta una forma di allegoresi omerica. In qualche centinaio di versi, Callimaco riesce a fare ciò che l'epica pre-classica ha fatto in un libro; Teocrito trasforma Polifemo in un oggetto di scherno; Apollonio, tramite una specie di allegoria psicologica, rimodella il Giasone pre-omerico in una moderna anima urbana. Poiché lo spazio è limitato, prenderemo in esame solo le Argonautiche, e poi solo l'introduzione al libro III. Con l'aiuto della musa Erato, anziché Calliope (la poesia amorosa al posto dell'epica), Apollonio fa in modo che Era e Atena supplichino Afrodite di far innamorare Giasone e Medea. Ques'imitazione del Giudizio di Paride crea un'allegoria sopra a un'altra. Il potere e la saggezza devono esser riconciliate prima di poter richiedere l'aiuto della bellezza e dell'amore (Eros). È una favola in cui la discordia (Eris) viene soppiantata dal principio della cooperazione.

Anche la versione di Apollonio è una fiaba dell'amore coniugale opposto all'adulterio. In essa si mescolano temi dell'Odissea (in cui, oltre a Odisseo e Penelope, si riuniscono anche Menelao e l'infedele Elena), che vengono opposti al tema che permea l'Iliade (nella quale Paride ed Elena, Agamennone e Briseide, e molti altri ancora, commettono adulteri). Apollonio raccoglie anche altri elementi dalla tradizione, in quanto la violenta perfidia di Medea all'interno della famiglia richiama alla memoria l'atto omicida di Clitennestra. La sua descrizione di Afrodite ed Efesto nella loro armonia coniugale soppianta il modello di Demodoco nel suo inno ad Ares e Afrodite. Riguardo a Efesto, l'alessandrino scrive: "Di buon'ora se ne andò ai suoi forni e alle sue incudini, in un'ampia caverna su un'isola fluttuante, e colà, con la potenza del fuoco, egli produceva le opere più bizzarre". In tale descrizione, il pubblico di Apollonio riconosceva un'allegoria del fuoco, dell'acqua e della Terra, una topografia della terraferma, dell'isola e della caverna, rappresentazioni cui non abbiamo molta familiarità al giorno d'oggi. I primi tre termini appartengono a un teatro elementale eterno, mentre gli ultimi tre a una durevole geografia greca. Uno dei sottogeneri dell'epica è quello geografico. Nell'Iliade ci ritroviamo nella città di Troia; nell'Odissea torniamo in Grecia, prendendoci qualche pausa per compiere costose escursioni; nelle Argonautiche viaggiamo ancor più lontano, ma mantenendo sempre un piede in Alessandria.

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Malgrado i nostri progressi nella comprensione dell'allegoria, rimangono ancora molti fraintendimenti: che un'opera letteraria debba essere palesemente allegorica per esser considerata tale; che i suoi elementi allegorici debbano essere coerenti; che l'allegoria possa esistere senza alcuna lettura allegorica. Virgilio sembra essere un buon punto da cui partire per liberarci da tali idee errate, in quanto con l'Eneide, la lettura allegorica diviene istituzionale, sia da parte di Virgilio, che dalla parte dei suoi critici. Servio Onorato, che dovette inventare la parola "polisemo" per analizzare l'opera di questo poeta, dà inizio a un'impresa che a tutt'oggi è ancora viva e che include il cristiano Fulgenzio (che intravide nell'Eneide I-VI il corso della vita dalla giovinezza alla vecchiaia), il medievale Bernard Sylvestris (che nel poema scoprì la "verità sotto il velo della finzione"), Dante (che considerò il suo maestro come un esempio di Saggezza Umana), e Landino (che nell'opera vide una ricerca del bene supremo). Allo stesso modo, vari poeti da Boiardo a Milton, ebbero la propria Eneide. Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci che il nostro principale interesse non va a ciò che i lettori hanno trovato in Virgilio, ma a cosa nell'opera ha permesso loro di trovarlo.

Possiamo dire che l'Eneide è un'allegoria derivata da una sintesi di allegoresi anteriori. Non vi è nulla d'ingenuo in Virgilio. L'influenza omerica compete con l'alessandrina, l'ateniese e la romana, e l'allegoria mescola i vari livelli mitico, storico, teologico ed esperienziale in un modo che risulterà congeniale ai lettori rinascimentali e successivi. Prima epica di complessa coscienza storica, l'Eneide è un'allegoria del passato, del presente e del futuro. Nella sua rappresentazione di Roma, Virgilio è anche un allegorista: politico, religioso e amatorio. Senza alcun dubbio, i suoi contemporanei riuscivano a scorgere molte più cose nella sua opera di quante ne riusciamo a scorgere noi lettori moderni. Solo dopo due secoli di studi stiamo cominciando a comprendere le allusioni di Virgilio.

La sua allegoresi di Omero è un soggetto più semplice, del quale possediamo un'analisi basilare ma non ancora un'interpretazione completa. Per esempio, solo gradualmente stiamo abbandonando la nozione che la prima parte dell'Eneide imita l'Odissea, mentre la seconda l'Iliade, un'idea rinascimentale imprecisa tanto quanto un'altra teoria critica coeva, ossia l'assegnazione alle due parti del poema di due temi diversi: la via contemplativa e la via activa. Allo stesso modo, l'inesattezza della caratterologia precedente, come nella visione di Scaligero secondo cui Enea rappresenta la forza d'animo di Achille (senza la sua temerarietà) e il senno di Odisseo (la cui astuzia viene trasferita a Sinone).

Non possiamo analizzare l'intera Eneide, anche se concentrandoci sulla sua storia centrale, quella di Didone ed Enea, possiamo scoprire una chiave per comprenderne la struttura. Come con Omero, Apollonio e altri facenti parte della tradizione, Virgilio indica che questo tema è la caduta dell'uomo quando, parlando della partenza del suo eroe e della sua eroina, dice: "Quel giorno fu la prima causa di morte, e la prima causa di dolore". Come l'Era e Afrodite di Apollonio, Giunone e Venere di Virgilio hanno collaborato per organizzare una tragedia, fatta precipitare dalla visita di Mercurio su ordine di Giove. Lo stesso Enea accusa Apollo e il fato per la sua partenza. Qui l'allegoria è teologica e morale. Come Milton, Virgilio castiga la sua eroina per le sue gesta malvagie; a differenza di Milton, lascia a noi il compito di presumerne le conseguenze (cosa significherà il suo suicidio per i suoi sudditi?). Sebbene sia formata da molti personaggi, storici e letterari (riecheggia le omeriche Penelope, Elena, Nausicaa, Calipso e Circe, e come Aiace commette un suicidio; è modellata sulla Medea di Euripide e Apollonio; riflette sia la fondatrice storica di Cartagine, sia la sua successora africana, Cleopatra), Didone è un personaggio originale, come lo è Enea. Perché, sebbene anch'egli sia una combinazione di precedenti letterari e storici (gli omerici Odisseo, Ettore, Achille, Agamennone e Paride; prime rappresentazioni di Giasone; figure storiche come Antonio e Augusto), è pari a Didone per la vividezza di una polivalenza che ha mantenuto in vita la loro coppia per duemila anni, in quasi cento rappresentazioni teatrali. Inoltre, questa coppia (potrebbero anche essersi sposati in quella grotta, visto che la legge romana non richiedeva alcuna cerimonia) costituisce un modello per gli Adamo ed Eva di Milton, e si fonde nella Britomarte di Spenser. Nessuno dei più grandi poeti è sfuggito al carisma di Enea e Didone.

Riesaminandoli attraverso gli occhi di Spenser e Milton, riusciamo a comprendere meglio il loro carattere. Come Didone ed Enea, Britomarte è sia casta, sia lasciva. Come Britomarte, Enea e Didone sono un tutt'uno: mentre leggiamo le loro parole, ci sembra di ascoltare due aspetti della personalità di Virgilio, in cui che possiamo chiamare un'allegoria del sé e dell'anima. Sia Didone che Enea sono dei leader politici che hanno fondato imperi, sono degli esuli che tradiscono i loro giuramenti e, come conseguenza, si incontrano nell'Ade. Ricordiamo bene Didone da questo incontro nel libro VI, e naturalmente dalla sua tragedia nel libro IV, ma tendiamo a dimenticare che è presente anche nei libri I-III. Inoltre, il suo personaggio si dissolve pian piano nei libri VII-XII. Milton non poteva non notare la possibilità di creare un'epica con due figure centrali, un uomo e una donna. Da viva, Didone rappresenta l'antitipo di Creusa; da morta, rappresenta il tipo dell'antitipo di Lavinia. Didone muore gettandosi sulla spada di Enea, e la sua pira funeraria richiama alla memoria quella di Ettore; Enea è Ettore redivivo, la sua spada achillea è lo strumento di morte anche di Turno, anch'esso un altro Ettore, o Didone. Nulla è semplice in Virgilio.

La discesa negli inferi di Enea è un antitipo delle due discese infernali descritte nell'Odissea. Omero aveva traslato la prima con la seconda; ora Virgilio le trasla entrambe. Sebbene sia ossessivamente allegorico nel suo metodo, il poeta romano ci obbliga a incontrare il caos, il torrente impetuoso, la sofferenza e la preoccupazione, la malattia e la vecchiaia, il timore, la fame e il bisogno. La morte e la fatica sono seguite dal sonno (per Omero il fratello della morte), dalla guerra portatrice di morte e dalla discordia (quella Eris che aveva provocato il Giudizio di Paride). Continuiamo con Enea che passa davanti ai Centauri, a Scilla, a Briareo e all'Idra di Lerna, alla Chimera, alle Gorgoni, alle Arpie e a Gerione. E questa è solo la scena d'apertura. Non c'è da meravigliarsi che la geografia dell'Ade descritta da Virgilio sia bastata a inspirare l'Inferno dantesco. Come Virgilio stesso chiarifica alla fine del libro VI, la discesa di Enea non è reale, ma solo un sogno. In effetti, è un'allegoria del sogno, personale e psicologica, ma anche cosmologica, storica e profetica. Anche la cosmologia, la storia e la profezia sono chimeriche? La profezia sarà particolarmente importante per i successori cristiani di Virgilio. Dante si approprierà della storia e cosmologia virgiliane. Come Seneca disse di Omero, tutte le dottrine (in questo caso teologiche, filosofiche e politiche) sono lì, a contraddirsi l'una con l'altra. Ancora una volta Virgilio ha preso seriamente il suo maestro.

Nel nostro breve esame della sua allegoria, dobbiamo per lo meno accennare all'allegoresi di Virgilio trattata nel libro VIII, quella dello Scudo di Achille. Lo Scudo di Enea è stato creato da Vulcano su richiesta di Venere. (Notiamo brevemente come Virgilio estenda il resoconto di Apollonio riguardo alla riconciliazione tra Efesto e Afrodite.) Come lo scudo greco, lo scudo romano pone un microcosmo all'interno di un macrocosmo, uno strumento comune d'allegoria ambiziosa. Landino aveva allegorizzato l'Eneide in base a una teoria di corrispondenze tra il microcosmo e il macrocosmo; ora possiamo capire da dove abbia preso la sua sanzione. Come la discesa omerica nell'Ade, ma a differenza del suo scudo di Achille, lo scudo di Enea è profetico. Pertanto, lo scudo di Enea combina il mito, la storia e la profezia, una combinazione che sarà essenziale per le fasi successive della tradizione.

Nel libro IX, quando si avvicina alla conclusione dell'opera, Virgilio invoca la musa Calliope contro la musa Erato di Apollonio. Nel libro XI, Enea è definito il "primo nel mostrare deferenza per gli dèi". Di conseguenza, alcuni lettori lo considerano un prete piuttosto che un eroe epico, mentre altri considerano la sua pietà come una conferma della nuova direzione teologica che l'epica allegorica prenderà in futuro.

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Non dobbiamo aspettare Prudentius, e nemmeno Dante, due devoti virgiliani, per assistere a una nuova direzione teologica, perché dopo una generazione da Virgilio, arriva Ovidio, per mettere in atto la più incredibile guerra di successione nella storia della letteratura. Alcune delle conseguenze di questa battaglia sono rappresentate allegoricamente nei racconti di Faeto, Icaro e nell'esilio di Ovidio per mano di Augusto. Per quanto riguarda la teologia, dove possiamo trovare una versione più ampia che nelle Metamorfosi? Nella Bibbia? Un romano imperiale che inizia la sua epica con dei resoconti della creazione, dell'uomo originario, del peccato universale, del diluvio e delle sue conseguenze, deve esser stato a conoscenza delle credenze ebraiche. Chiedersi se lui abbia o meno letto la Bibbia, significa perdere di vista il punto essenziale: come Shakespeare e Whitman, questo cosmopolita era un grande parlatore. Egli conobbe Israele, come Shakespeare conobbe l'Italia, e come Whitman conobbe l'India: leggendo libri e parlando. Per Ezra Pound, Ovidio, assieme a Confucio, è una delle due guide alla religione degne di fede. Uomo dotato di scarso senso dell'umorismo, Pound considerò Ovidio con molta serietà, come la maggior parte dei poeti occidentali. Cosa ha a che fare tutto ciò con l'allegoria?

Un bel po', perché si possono dire cose serie in forma ironica. Alcuni retori classici considerano l'allegoria come una forma d'ironia, altri come una specie di personificazione, altri come un ornamento (kosmos, in termini aristotelici). Ovidio è il primo poeta interamente ironico, nel senso che egli proietta perlomeno due attitudini contrastanti in tutto ciò che scrive. Egli crea anche ciò che D. C. Feeney chiama "l'allegoria della personificazione", "un metodo alternativo per riflettere sul comportamento umano, che alla fine emerse in maniera trionfante nella narrativa europea in versi". Secondo Angus Fletcher, kosmos, o l'immagine allegorica, enfatizza "la modalità visuale", più specificatamente " 'l'isolamento' visivo o simbolico", ed esprime sia "un universo", sia "un simbolo che implica un rango in una gerarchia". Secondo Gordon Teskey, l'allegoria è paratattica, digressiva ed episodica, e introduce dettagli iconografici che sono irrilevanti per la sua narrativa. Prese tutte assieme, queste osservazioni riguardo alla natura dell'allegoria, gettarono un bel po' di luce sulla prassi di Ovidio. Come attestano l'Ovide moralisé e i lettori rinascimentali, noi non siamo i primi a considerare Ovidio connesso all'allegoria. Tuttavia, potremmo essere i primi a sostenere che è fondamentalmente allegorico.

Cominciamo con il principio di paratassi. Ovidio lega assieme duecentocinquanta storie in modo che, al giorno d'oggi, anche se possiamo riconoscere raggruppamenti tematici e strutturali, non possiamo distinguere alcun principio generale di subordinazione o unità. Persino la metamorfosi non è un principio adeguato. Continuiamo con il principio di digressione. Sebbene la maggior parte dell'epica divaghi, Ovidio è il primo a interrompere la catena dei pensieri o la linea narrativa per il puro piacere di farlo. Nessun altro poema scritto prima è più episodico delle Metamorfosi, ossia, composta da tali unità allegoricamente indipendenti. Solo Petrarca con le sue Rime andò oltre nella minimalizzazione dei segmenti allegorici di un lungo poema. Con Tennyson e altri poeti moderni, la voga per i poemi lunghi cresce in maniera occasionale. Allora, possiamo dire che Ovidio enfatizza "la modalità visuale", come è attestato dalla sua legione di seguaci pittori; che i suoi episodi narrativi si trovano in un "isolamento visuale o simbolico" l'uno dall'altro; e che spesso i loro dettagli iconografici sono estranei a qualunque maggiore narrativa, proprio perché non esiste alcuna narrativa maggiore. La struttura del poema, dalla creazione al presente, non è una narrativa, ma solo un terminus a quo e ad quem. Le originali allegorie di Ovidio (si veda l'invidia nel libro II, la fame nel libro VIII, il sonno nel libro XI e la diceria nel libro XII) ci pongono lungo un percorso che ci condurrà da Dante, a Spenser e Milton.

Le Metamorfosi, con la loro azione discontinua e la loro morale poco chiara, sono anche ambigue in riferimento alla tonalità. Di conseguenza, come con ogni allegoria, la responsabilità interpretativa ricade sulle spalle del lettore. Il poema inizia con la cosmologia, passando poi per la teologia, il mito, la storia e l'esperienza. Così viene proclamato uno schema allegorico a cinque livelli: cosmico, divino, semi-divino, eroico e mortale; tali singoli elementi vengono spesso intrecciati tra loro. Le parti iniziali del poema enfatizzano l'amore, mentre le ultime, enfatizzano la guerra, i due temi sono interconnessi, come lo erano Ares e Afrodite, la cui storia viene rinarrata da Ovidio. Questa interazione allegorica avrà molti seguaci durante il Rinascimento, tra i quali Ariosto, Tasso, Sidney e Spenser, che seguono Ovidio nello spiegare quell'unione allegorica come i due aspetti di Ercole.

Abbiamo parlato molto delle caratteristiche allegoriche di Ovidio. Torniamo adesso ad analizzare un singolo episodio, la storia di Faeto e del Carro del Sole, un'allegoria dell'Hubris. Rappresentata da un'ekphrasis delle porte del tempio di Apollo, la storia di Ovidio, come gli scudi di Omero e Virgilio, è un'allegoria inserita. Nella sua narrativa sono incluse le figure allegoriche del giorno, del mese, dell'anno, del cecolo e delle ore, che, assieme alle quattro Stagioni, sono al servizio di Faeto nel suo cammino attraverso il cielo. Ovidio fa una digressione per introdurre le case dello Zodiaco, una cosmologia allegorica elaborata con ulteriori figure allegoriche al servizio del Sole: incendi, alba, fuoco e fiamma. L'intero episodio fa parte di un'allegoria elementale archeggiante che contrasta il fuoco con l'acqua dell'inondazione e con la madre Terra, che, alla fine della narrazione, si lamenta riguardo al calore solare. Naturalmente, questi tre elementi fecondatori sono anche complementari.

Passiamo ora dalle allegoresi ovidiane di Esiodo, Arato e Lucrezio, alle sue allegoresi di Omero, Apollonio e Virgilio. Nel rielaborare la leggenda di Troia, Ovidio espande la struttura omerica (include la fondazione di Troia e i momenti successivi all'arrivo di Odisseo a Troia) e miniaturizza il racconto epico (come nel libro XII, nel quale riassume la Guerra di Troia in una mezza dozzina di versi). Successivamente, farà lo stesso con Virgilio, raccontando in maniera prolissa la leggenda di Roma, per poi sbrigare, in un paio di versi, gli ultimi sei libri dell'Eneide. Egli riassume la storia di Didone in quattro versi, svuotati di ogni interesse romantico. Come se stesse cercando di superare se stesso come miniaturista, nel libro XIII riduce l'Odissea e l'Iliade in un solo epigramma: "La mente vale più dei muscoli". Pertanto, il riassunto e la generalizzazione sono strumenti essenziali della tecnica allegorica di Ovidio, per mezzo della quale la storia viene convertita in astrazione. Egli ha appreso alcune tecniche dell'allegoresi dai suoi maestri: come ampliare l'elemento odisseano nel raccontare la storia dell'Iliade (da Virgilio); come riassumere Omero inscenando una battaglia tra Aiace e Odisseo (dallo stesso Omero); come introdurre il materiale apolloniano nella descrizione di Troia (sia Virgilio che Apollonio avevano portato il loro eroe nei luoghi dell'Odissea). Allo stesso modo, Ovidio aggiunge materiale post-omerico, seguendo le orme di Virgilio e indicando una direzione da seguire per Dante e altri poeti. La sua gestione della partenza da Troia collega i due poemi omerici per mezzo di un'altra allegoresi virgiliana.

Il problematico libro XV, preso troppo sul serio da coloro che in Ovidio cercano una filosofia coerente, annulla Pitagora e la generale gravità del pensiero classico. Appoggiando la Pax Romana, Ovidio infrange il mito di Eris. Invertendo l'andamento generale del poema, egli commemora il Cesare politico come una figura storica, dopodiché lo rende divino, riservando solo per sé una posizione cosmica tra le stelle. In una doppia ironia, l'Imperatore mortale viene rapito da Venere, una dea cui Cesare in persona aveva conferito il culto di stato. Ciononostante, la profezia divina di Ovidio supera la semplice profezia politica del libro VI dell'Eneide, la cui discesa negli inferi era già stata eclissata da Ovidio facendo ricorso al più profondo mito di Orfeo.

Dobbiamo notare che Ovidio è anche anti-allegorico, nel suo agnosticismo, nella sua trivializzazione del mito, della storia e della politica, nella sua parodia controproducente.

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Ho due amici, un devoto cristiano e un non credente. Quest'ultimo, si è dedicato allo studio di Dante, e ha provato piacere a scandalizzare l'altro dicendogli che stava leggendo un lungo poema scritto da un italiano che aveva compiuto un viaggio. Ho un altro amico, anch'egli un credente, e studioso di Dante, che, sebbene riconosca un'allegoria nel modo in cui il poeta tratta i sette peccati mortali, non considera la Divina Commedia in sé come un'opera allegorica. Come non credente, ritengo il poema un'opera interamente allegorica, anche se considero Dante un critico piuttosto confuso della propria opera, perché sembra alquanto improbabile e indesiderabile che una lunga narrativa debba costantemente mantenere quattro livelli di significato. Come può esserci un così profondo disaccordo tra cinque lettori cresciuti nella stessa tradizione, tre dei quali sono cristiani, e quattro dei quali vivono nella stessa epoca? La risposta è piuttosto semplice: allegoria è una questione di definizione e interpretazione.

Va riconosciuto che la Commedia tratta un argomento tra i più attraenti di tutta la letteratura. In cosa consiste questo suo facino universale? Tra i contemporanei, pochi hanno letto l'intero poema nella sua lingua originale, perciò non ci soffermeremo sulla bellezza del linguaggio e delle immagini. Ci chiederemo, invece, cosa nel suo argomento epico, nella sua idea, ossia nella sua allegoria, risulta così attraente. Ma prima dobbiamo riassumere quell'argomento, e per farlo cediamo la parola a Dorothy Sayers. Secondo la Sayers, "L'allegoria è l'interpretazione dell'esperienza attraverso le immagini". Il poema di Dante "è un'allegoria della Via di Dio", "della ricerca di Dio da parte dell'anima". Dante "si mette a scrivere la grande Commedia della redenzione e il ritorno di tutte le cose tramite l'auto-conoscenza e la purificazione alla beatitudine della presenza di Dio". In contrapposizione a tanta allegoria cristiana, la sua è "un'allegoria di personaggi simbolici" in cui "la maggior parte delle … figure sono immagini simboliche". Nel suo viaggio, Dante ("l'immagine di ogni peccatore cristiano") sperimenta l'Inferno ("l'immagine delle più profonde possibilità del Male all'interno dell'anima"), il Purgatorio ("l'immagine del pentimento attraverso il quale l'anima si libera del rimorso del peccato) e il Paradiso ("l'immagine dell'anima in uno stato di Grazia", simboleggiata da Beatrice). La Sayers ci dice che il fascino di Dante può avere a che fare con la storia di un uomo innamorato che è costretto a "avventurarsi nel regno dei morti per ritrovare la sua Amata".

Cos'è questo Inferno attraverso il quale si viaggia, questo Paradiso a cui si giunge, e questo Purgatorio che si trova nel mezzo? Può essere che l'Inferno sia la morte, mentre il Paradiso sia la vita, oppure il contrario? Come potete vedere stiamo parlando in modo allegorico: tocca a voi decidere. L'Inferno è il male e il Paradiso il bene, oppure il contrario? La maggior parte dei lettori si diverte a viaggiare attraverso l'Inferno, mentre sono pochi coloro che trovano interessante il Paradiso. Questo avviene tra i lettori occidentali; i lettori orientali sono più portati a considerare il poema come un'opera perfettamente simmetrica, molto probabilmente come Dante stesso l'aveva intesa. Quali altri schemi aveva in mente, visto che generalmente consideriamo i poeti virgiliani tutt'altro che mono-schematici? Potrebbe esser che Dante abbia preso la rota Vergiliana e l'abbia ribaltata, prendendo l'Eneide come modello per l'Inferno, le Georgiche come modello per il Purgatorio e le Egloghe come modello per il Paradiso? L'inversione e rettificazione degli archetipi potrebbe far parte del suo progetto.

Curiosamente, l'epica di Dante non assomiglia molto a un viaggio, anche se le nostre facoltà mentali possono essere estese per adattare il viaggio dantesco a quello di Enea, o al vecchio schema del nostos dell'Odissea. Infatti egli scende giù dentro una fossa e poi torna indietro su una montagna per fissare lo sguardo più in alto verso immagini celesti. C'è forse qualcuno che non ha mai avuto alti e bassi, e non cerchiamo noi tutti un qualche principio supremo? Dante è piuttosto originale e palesemente universale. Egli è anche personale, ammettendo schiettamente di provar piacere per le altrui sofferenze, ed egoista, nel ripetere i dettagli della sua crisi di mezza età. Un esule dal proprio paese, dalla propria famiglia e dalla donna che ama, egli è segretamente più felice delle anime comuni. Di conseguenza, egli interessa a due tipi di lettori: quelli che condividono la sua libertà, e quelli che vorrebbero condividerla. Nella vita reale, egli rappresenta l'uomo felicemente sposato (sembra che lo sia stato veramente) che, malgrado tutto, desidera ardentemente la sua donna ideale; nell'immaginazione, egli rappresenta il solitario libidinoso con tutte le sue varie fantasie. Il poema di Dante costituisce sia una fantasia, sia un incitamento a fantasie successive. Secondo me, il suo maggior difetto è rappresentato dalla sua mancanza di una base mimetica.

Dante trae vantaggi negando ciò che cerca e cercando ciò che lui e gli altri hanno negato. Dante è Enea, egli è Paolo, anche se nega entrambe le identità. La sua "falsa modestia" è un'altra caratteristica che io trovo poco seducente. Dante finge di essere lo studente di Virgilio, di Beatrice e di altri personaggi, ma in realtà egli è l'insegnante. Nella teoria poetica, da Orazio ai nostri giorni, abbiamo fatto finta di cercare un'istruzione, ma ci siamo divertiti nel farlo? Dante ci fa andare avanti e indietro, perché quando lui prova piacere, siamo noi a essere istruiti. Egli incarna brillantemente questo paradosso nel suo rapporto con Virgilio, che lui considera un insegnante, ma che poi non esita a licenziare. Nessun rapporto del genere insegnante-studente opprime l'epica classica (Fenice e Achille sono un'eccezione trascurabile), sebbene appaia spesso nell'epica indiana. Tale rapporto serve sicuramente a universalizzare il poema dantesco, specialmente perché l'insegnante è, in parte, una figura fallimentare. Virgilio, che ha fatto del suo meglio per salvare la propria anima, non verrà salvato, perlomeno non all'interno del sistema religioso del poema. Eppure Dante è un uomo così fortunato ad avere insegnanti come Virgilio, Statio, San Bernardo e, in special modo, Beatrice!

La ricerca del poema per la giustizia disponibile nella Città di Dio, è compromessa dalla dottrina del castigo, una sublimazione simbolica del principio di vendetta. Dopotutto, l'Inferno di Dante è un Paradiso sadomasochista, una caratteristica che può rendere il fascino del poema ancor più universale. Il pregiudizio e l'esclusività culturale di Dante esercitano poco interesse sul lettore. Ciononostante, la sua risoluzione comica della storia del dolore umano, molto più globale delle dispense finali dell'Iliade, delle Argonautiche, dell'Eneide, e persino dell'Odissea e delle Metamorfosi, spazza via la colpa, come, in teoria, la commedia dovrebbe fare. Se, in realtà, tutto ciò fosse accaduto. Dante potrebbe aver preso più seriamente il suo Ovidio.

Cosa possiamo imparare riguardo alla Divina Commedia dalla sua accoglienza più tarda? Ci limiteremo agli scrittori epici, ed esclusivamente agli inglesi, tra i quali Dante ha avuto dei lettori illustri: Chaucer, Spenser e Milton; Blake, Wordsworth e Carlyle; Pope, Byron e Joyce. Curiosamente, coloro che lo hanno studiato più profondamente hanno meno da dire a suo riguardo. Chaucer elude Dante; sebbene il sommo poeta influenzi la sua allegoria favolosa, il suo effetto su Troilus and Criseyde è insignificante. In Spenser non c'è alcun tipo di allusione a Dante; né appare in alcuna delle opere di Milton, se non in qualche nota critica. Secondo gli studiosi, entrambi sarebbero stati dei lettori esperti di testi in italiano e latino, ed entrambi avrebbero avuto accesso a tali testi, Spenser alla Divina Commedia, Milton sia alla Divina Commedia sia a molte altre opere (David Wallace ci informa che egli "conosceva la Monarchia, possedeva una copia del Convivio" e "aveva una certa familiarità con la Vita nova"). Forse la prova dell'influenza dantesca è così lampante che non riusciamo a vederla. La struttura in tre parti de The Faerie Queene (libri I-II; III-IV; V-VI) assomiglia molto alla struttura della Commedia; allo stesso modo, le assomiglia anche ciò che io considero come l'ordine più probabile delle maggiori opere di Milton: Paradise Lost, Samson Agonistes, Paradise Regained. Nella prima fase di Spenser e Milton, viene esposta la dottrina del peccato originale; nelle loro fasi intermedie sono entrambi interessati alla conoscenza del sé e dell'altro; nelle loro fasi finali entrambi contemplano i mondi ideali, Spenser, quelli della giustizia e della cortesia, Milton, quello del Paradiso.

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Come Petrarca e Boccaccio prima di loro, Ariosto e Tasso rispondono alle tendenze minacciose di Dante. A differenza di quegli adulatori, che si sottomettono alla possente reputazione del loro predecessore, Ariosto e Tasso prendono delle misure per evitarlo, anche se ci sono dei tratti importanti nei loro poemi che possono esser fatti risalire alla Commedia. Ariosto sviluppa ciò che abbiamo identificato come la sua vena fantastica, mentre Tasso, la sua vena allegorica. Entrambi gli scrittori cinquecenteschi rifuggono dal personale in Dante, che Petrarca aveva intensificato e che Boccaccio aveva riecheggiato, anche se in un modo secolare (i suoi narratori fuggono dalla Firenze oppressa dalla peste, per rifugiarsi in un locus amoenus suburbano). A differenza di Tasso, che fonderà il romanzo con un'originale teoria allegorica, Ariosto si accontenta dei suoi materiali romantici, ripresentandoli in una maniera a volte più fantastica e più realistica dei suoi predecessori medievali. In questo modo egli predice la liberazione della narrativa mimetica dai suoi vincoli allegorici, che emergeranno solamente nel romanzo. Come Virgilio, Ariosto celebra un impero, la più limitata Casa d'Este, per la quale egli offre un mito della fondazione, basato su quello di Virgilio. In un certo senso, tuttavia, come Dante prima di lui, egli amplia l'impero romano fino a includere l'intera Europa. Infine, tramite la sua tematologia francamente erotica, egli sovverte i sublimati atti di devozione di Dante e di altri che si erano battuti per riconciliare la loro adorazione della castità di Cristo e verginità di Maria con la propria sessualità.

Sebbene l'Orlando Furioso incorpori molte figure allegoriche, episodi e temi più ampi, Ariosto è in un certo senso lo scrittore meno allegorico della cosiddetta tradizione allegorica. A differenza della maggior parte dei nostri poeti epici, egli produce un poema per la recitazione orale. Le sue dichiarazioni di principi morali servono a salvare la coscienza di un pubblico i cui bisogni più urgenti sembrano esser stati il piacere e l'auto-adulazione. A differenza di Tasso, Ariosto non fornisce un'allegoresi della propria opera; né cristianizza i suoi temi al di là dei termini della sua controversia; imperterrito, egli privilegia "l'amatorio" rispetto al "marziale", anche se sono entrambi temi importanti. Nella genialità ed esuberanza della sua originalità, egli supera tutti quanti eccetto Ovidio, e può esser considerato il poeta epico più fantasioso. La sua decisione di continuare la già monumentale narrazione di Boiardo con una altrettanto monumentale, capovolge la tradizione dell'imitazione del palinsesto che parte da Alessandria, passa attraverso Dante e ricomincia con Spenser e Milton. Già tale decisione di per sé rivela il suo genio liberatore.

Sotto alla sua superficie romantica e malgrado le sue imprevedibili sconnessure, l'Orlando Furioso riflette i più profondi programmi allegorici, caratteristici del pensiero medievale e rinascimentale. Come l'opera di Dante, e in armonia con il principio poetico del movere et docere, l'Orlando Furioso rappresenta un'allegoria dell'educazione. Imitando Virgilio, e più appropriatamente i modi di interpretarlo del XVI secolo, l'Orlando Furioso rappresenta un'allegoria del principe perfetto. Il modello, sia per Orlando che per Ruggero, è Ercole, un eroe composito le cui dodici fatiche allegorizzano i dodici aspetti della sua personalità. Conosciamo la storia di Ercole dalla sua nascita alla sua morte, e oltre; ciò non è vero per quel che riguarda Odisseo ed Enea. Di conseguenza, egli fornisce ciò che potremmo chiamare una metafora compressa (in contrapposizione a "estesa") per gli eroi di Ariosto e di altri. Funge anche da uno dei due poli nella contrapposizione tra il Bene e il Male, mentre l'altro polo è rappresentato, nella tipologia rinascimentale, da Paride (si veda, per esempio, il dibattito di Landino tra la scelta malvagia dell'ultimo e la scelta virtuosa del primo). Allo stesso modo, la narrazione di Ariosto è organizzata in base a una contrapposizione tra la Venere celeste e la Venere terrestre, un altro topos rinascimentale.

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Poiché chiunque con un occhio attento alle lettere maiuscole può leggere l'Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata alla ricerca di figure allegoriche, non ne compileremo un elenco, né forniremo alcun commento su queste astrazioni - classiche, medievali e rinascimentali - ampiamente convenzionali, sebbene Ariosto e Tasso ne facciano un abile uso. Più utile alla nostra comprensione della tradizione allegorica potrebbe essere una sintesi dei contributi tassiani alla sua teoria, riscontrabili nei suoi Discorsi del poema eroico, nell'allegoria della propria epica, nelle sue lettere e in altri scritti critici. Critico estremamente dotato, Tasso, malgrado delle assurdità occasionali e delle frequenti contraddizioni, può esser considerato il più influente teorico dell'epica dai tempi di Aristotele. La sua opera era così stimata che Spenser potrebbe aver fatto una pausa nella sua composizione del The Faerie Queene per assorbire l'ultima edizione della Gerusalemme; la sua teoria, che Milton conosceva bene, definisce di fatto il progetto del Paradise Lost.

Come la maggior parte dei critici rinascimentali italiani, Tasso mantiene sempre un occhio fisso su Aristotele. Riguardo al romanzo cavalleresco come equivalente letterario all'epica classica, egli spiega che Aristotele non poteva avere alcuna opinione a riguardo perché non ne aveva mai letto uno. Tasso continua sostenendo la superiorità della trama a episodi rispetto alla trama ad azione singola. Secondo lui, è più tipico del genio e del linguaggio italiano avere più azioni. Partendo da un brano della Poetica aristotelica, Tasso sviluppa il concetto secondo cui la caratteristica distintiva dell'epica è il meraviglioso, che lui ingegnosamente assimila al verosimile. In aggiunta ad Aristotele, egli sostiene che l'epica può imitare le azioni divine e le opere della natura come anche le gesta umane. In un'altra aggiunta, che fonde la retorica con l'etica e la poetica, egli sostiene che la narrazione è sostanza, non solo retorica; decoro etico, non solo stilistico. In una più importante e persino fantasiosa trasformazione di Aristotele, egli definisce l'allegoria come l'imitazione verosimile dell'universo. Seguendo l'epidittico Aristotele, egli afferma che l'epica, al contrario della tragedia, richiede ammirevoli agenti della più alta virtù e pietà, dal discorso dei quali noi ricaviamo immenso piacere. Contro Castelvetro, un rigido aristotelico, che aveva presentato delle argomentazioni a favore della storia, Tasso ragiona a favore dell'invenzione, vista come il principio più nobile nell'epica. Secondo lui, poiché la storia è intrecciata alla religione, la più sublime Verità epica verrà trovata nella storia cristiana. Contro Mazzoni, un platonista che aveva presentato argomentazioni a favore dell'immaginazione fantastica, Tasso ragiona a favore dell'icastico, che, sostiene, costruisce idoli di realtà. Dapprima Tasso afferma che l'amore è il più grande tema epico, ma poi segue sostenendo che la fede, la Chiesa e l'Impero sono temi ancor più grandi.

Ancor più interessante per noi è la definizione data da Tasso riguardo all'allegoria. Il poeta epico (o eroico) dà forma al suo poema come Dio dà forma alla sua creazione. La sua allegoria è la sua Idea (cfr. il "fore-conceit" di Sidney), la sua Verità, la sua Anima. Non è nulla di meno che la figura in vetro della vita umana. La verità suprema verso cui il poeta epico tenta di arrivare è la verità degli universali. In una ridefinizione di Aristotele, l'Imitazione diviene la rappresentazione di realtà puramente esterne, in quanto solo l'allegoria, dice Tasso, può rappresentare la vita interna ed etica dell'uomo. L'allegoria entra in gioco quando il letterale, o lo storico, giunge a termine; ossia, quando inizia l'Immaginazione. La Poesia, che Tasso ha identificato con l'allegoria, viene definita un'imitazione dell'azione umana, modellata per insegnarci come vivere. In un'eccezionale inversione finale, l'Imitazione, che Tasso aveva contrapposto all'allegoria, adesso, attraverso il potere dell'Immaginazione, diviene il metodo per mezzo del quale il poeta consegue l'allegoria, che è stata definita l'idea universale.

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Nel '500, la teoria italiana dell'epica e del romanzo ebbe un effetto formativo sulla struttura e sull'allegoria del The Faerie Queene. Minturno distingue l'epica che, imita un'azione memorabile portata a conclusione da una persona illustre, dal romanzo medievale, che ha come oggetto una folla di cavalieri e dame, e faccende di pace e guerra. In questo gruppo, il cavaliere viene considerato in maniera speciale, e l'autore lo renderà più famoso degli altri. Spenser chiamerà quel cavaliere Artù e la sua consorte Gloriana. Il biografo di Ariosto, Pigna, dice che i romanzi si dedicano a innumerevoli gesta d'innumerevoli uomini, ma si occupano principalmente di un uomo che dovrebbe esser celebrato al di sopra di tutti gli altri. E così gli scrittori dei romanzi medievali concordano coi poeti epici nello scegliere una singola persona, ma non a seguire una singola azione. Toscanella suggerisce che il poeta debba porre svariate virtù in svariati individui; una virtù in un personaggio, e un'altra in un altro, in modo da usare tutti i personaggi per modellare un uomo perfetto e completo; quest'ultima idea è un segno dell'idealizzazione romantica di Enea. Petrarca, che nel XIV secolo aveva già riassunto il fine e il soggetto di Virgilio come l'uomo perfetto, aggiunge che è come se Virgilio non stesse descrivendo Enea, ma l'uomo coraggioso e perfetto sotto il nome di Enea.

Questo modo di pensare collettivo ci conduce verso lo schema di Spenser per il suo personale romanzo-epico, nel quale Artù, l'eroe primario, viene successivamente incarnato in mezza dozzina dei dodici, o persino ventiquattro, avatar che Spenser aveva originariamente progettato. Egli rappresenta le sue sei virtù allegoriche nei suoi sei libri (santità, temperanza, castità, amicizia, giustizia e cortesia), ai quali aggiunge una conclusione filosofica, un'allegoria, per così dire. Alcuni hanno ipotizzato che i ibri della mutevolezza formino la prima metà di un progetto costituito da dodici libri, secondo cui Spenser ci avrebbe offerto altri sei libri della costanza. A ogni modo, i libri ancora esistenti presentano altre importanti disposizioni allegoriche: i libri con numeri pari sono cristiani, mentre quelli con numeri dispari sono classici; gli eroi dei libri pari sono i Cavalieri, quelli dei libri dispari, gli Elfi. Anche se è profondamente influenzato da Virgilio e Ovidio, la concezione generale di Spenser è meno classica che medievale (i suoi cavalieri rappresentano ciò che Aquino chiamò virtù infuse, mentre i suoi elfi, le virtù acquisite); meno medievale (è priva del quatre-sens dei livelli storici, allegorici, morali e anagogici) che rinascimentale (l'intera concezione costituisce una sintesi cristiano-umanistica); meno rinascimentale che moderna (come in Dante, tutto è interiorizzato, se non nella figura del poeta stesso, allora all'interno della psicologia del lettore).

La sua architettura non è simmetrica come sembra, poiché il poema è modellato da una dinamica temporale, o esperienziale. Il Libro della santità pone le basi dottrinali valide per il resto del poema, e di conseguenza è più importante degli altri singoli libri (Milton contrapporrà alla scelta di Spenser della Rivelazione come suo testo scritturale, la sua scelta della Genesi, in una mossa come quella compiuta da Apollonio che, per affermare la sua priorità su Omero, racconta una storia più antica). Allo stesso modo, i primi due libri, che bilanciano e sintetizzano gli elementi cristiani e quelli classici, stabiliscono un modello che contiene il metodo dell'intero poema. Sotto quest'aspetto, i primi due libri sono simili ai primi due canti della Commedia dantesca e ai primi due libri del Paradise Lost; tutti e tre gli esempi compendiano le opere di cui fanno parte. In ognuno dei suoi libri, Spenser inserisce un episodio allegorico che serve a mettere a fuoco il suo tema: La casa dell'orgoglio (I), Il pergolato della beatitudine (II), Il giardino d'Adone (III), Il tempio di Venere (IV), Il tempio di Iside (V) e Il monte Acidale (VI). Il fatto che Il giardino d'Adone sia "classico" ma si trovi all'interno di un libro "cristiano", ci aiuta a capire un'altra dinamica: la tesi cristiana (I), l'antitesi classica (II) e la sintesi cristiano-umanista (III), uno schema ripetuto nei libri IV, V e VI. Anche i libri III e IV, una delle tre coppie di libri contrastanti, costituiscono un continuum. Sotto l'insegna dell'allegoresi virgiliana, per mezzo della quale Britomarte sussume sia Didone che Enea, Spenser allegorizza lei e la sua ricerca come amore e guerra, o Venere contro Marte, nei termini di un'allegoria dialettica. In due dei suoi avatar, Belphoebe e Amoret, Britomarte appare come un'altra allegoria, la Venere Celeste e la Venere Terrestre. Terza in una triade, Florimell, riconciliando i primi due elementi, trasporta l'Amore in un piano cosmico. In risposta a questo raggruppamento allegorico, il libro IV introduce le figure dell'Ate, della lussuria e della discordia. Il libro V è collegato ai libri III e IV dal personaggio di Britomarte, la cui ricerca di Artegall supera i confini del libro IV. In effetti, a partire dal libro II, ogni libro del The Faerie Queene serve da completamento del libro precedente; in questo modo si viene a creare un'altra serie di accoppiamenti allegorici. Nel libro V, Spenser ci offre un'allegoria politica, fondando il suo trattamento della giustizia su un'allegoresi di Ercole. Il libro VI abbandona lo stile allegorico ed entra in quello romantico, come se volesse preannunciare ciò che sarebbe successo allo stile allegorico nella tradizione romantica. Nel passaggio del The Faerie Queene da un'allegoria atavistica attraverso un sincretismo culturale a uno stile romanzesco polivalente, possiamo persino intravedere un esame della cultura occidentale.

Ma qual è il principio unificante del poema? C. S. Lewis scrive: "Clearly some close relation obtains between Arthur and the liberating faith in the person of Christ" ('Chiaramente vi è una stretta relazione tra Artù e la fede liberatrice nella persona di Cristo'). Continua dicendo: "However, any direct leap from the literal Arthur to the theological would … have horrified Christian feeling. … The platonic level provided a meeting-ground between. It was unobjectionable to present an Arthur with philosophical overtones, and the Platonic Arhtur was in turn easily syncretized with the Christian" ('Tuttavia, qualunque balzo diretto dall'Artù letterale al teologico avrebbe … scandalizzato il sentimento cristiano. … Il livello platonico fornì un punto d'incontro fra i due. Era ineccepibile presentare un Artù con sfumature filosofiche, e l'Artù platonico era a sua volta facilmente sincretizzato con il cristiano'). Lewis sotiene che The Faerie Queene è un poema sia sacro, sia filosofico. Come abbiamo visto, è anche teologico e, a volte, storico. È anche mitico? In altre parole, il poema di Spenser è un'epica o solo un romanzo della cristianità platonizzata? Abbiamo cominciato con C. S. Lewis, un cristiano credente, proprio perché, recentemente, Spenser è caduto nelle mani agnostiche di quei critici per i quali tutto relativo, e il suo metodo è "un avvicinamento della verità alla verità": la santità conduce alla cortesia, il Monte Acidale rappresenta "il centro allegorico del poema". Tuttavia, per i cristiani il centro allegorico del poema deve essere la dottrina della caduta e delle redenzione dell'uomo.

Spenser è difficile da interpretare in modo definitivo, forse perché in un certo modo egli è come Dante che, sebbene rigidamente Tomistico nella sua teologia, come allegorista è personale e moderno. Malgrado la sua esplicita negazione, abbiamo visto come Dante è Enea, ed è Paolo. Allo stesso modo Spenser, tramite l'allegoria interna o psicologica della battaglia di Guyon, rappresenta un processo simile al nostro o al suo personale. Il suo poema può essere in debito con un'altra allegoresi rinascimentale di Enea, una che allegorizza il processo dello spirito. Può anche essere direttamente in debito con Dante. Frank Kermode dice: "Guyon passes from the lower temperance of natural habit to the virtue of a hero, which includes all the cardinal virtues", in "a purgatorial process from human to semi-divine virtue, from a human to a divine phronesis" ('Guyon passa dalla temperanza inferiore delle consuetudini naturali alla virtù di un eroe, che include tutte le virtù cardinali', in 'un processo purgatorio dalla virtù umana alla semi-divina, da una phronesis umana a una divina'). Il modello per Guyon egli lo trova nel Nuovo Testamento, nella rappresentazione di Cristo nel deserto. In breve, Guyon, come un avatar di Artù, è una figura del Cristo eroico. Anche lui è Paolo ed Enea. Come sostiene Jon Whitman, la lettura allegorica è simile all'esegesi cristiana, un processo che tende verso la conversione. L'eroe elifico di Spenser, attraverso la sua conversione, diviene una specie di gentiluomo cristiano, "The general end" che Spenser aveva specificato nella Lettera a Ralegh per la sua epica educativa. Tramite la sua partecipazione al processo di redenzione di Guyon, Spenser, come Dante, indica la via per lo scrittore e per il poeta.

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On the first pages of some ideal anthology of the period he does so much to initiate, one might find the poet Petrarch, confessing that he has made a holy thing of his beloved Laura - in other words, an Idol. The last pages of this same anthology would bring the reader up against a crazed hidalgo posted on a road in Spain - the mad one is trying to compel a group of traveling merchants to confess with him the supereminent beauty of a partly nonexistent lady whom he may never have seen. Behold, this dreamer cometh … After all, it is not Shakespeare, but Don Quixote, of whom one could truly say that his whole life was a life of allegory.
(Sulle prime pagine di un'antologia ideale del periodo che lui stesso fa di tutto per iniziare, si può trovare il poeta Petrarca, che confessa di aver sacralizzato la sua amata Laura - in altre parole, un Idolo. Le ultime pagine di quest'antologia porterebbero il lettore a trovarsi faccia a faccia con un folle hidalgo collocato lungo una strada spagnola - il pazzo sta cercando di costringere un gruppo di mercanti a confessare insieme a lui la sovreminente bellezza di una donna parzialmente inesistente, che forse lui non ha mai visto. Osservate, questo sognatore che sopraggiunge … Dopotutto, non è Shakespeare, ma Don Chisciotte, di cui si può sinceramente affermare che la sua vita è stata una vita di allegoria.)
James Nohrnberg

Nel proemio al libro II del The Faerie Queene, Spenser incoraggia Elizabeth a osservare l'Inghilterra "in this faire mirrhour", "thine owne realmes in lond of Faery". L'inversione, come la sua controparte, la conversione, è una routine allegorica (inversio era un termine romano per allegoria). "Spenser", dice Michael Murrin, "has inverted an age-old convention whereby the real world is mirrored in the ideal by asserting instead that the ideal world is mirrored in the real" ('Spenser ha invertito un'antica convenzione secondo cui il mondo reale è riflesso nell'ideale, asserendo invece che il mondo ideale è riflesso in quello reale'). Non è forse anche questo il procedimento della pazzia di Don Chisciotte? E non deriva dalla stessa fonte di Spenser: il mondo del romanzo? In una frase omessa dall'epigrafe succitata, James Nohrnberg afferma: "Renaissance literature, though it can hardly be said to put the relation of subject and object on the ideal basis of independence that leads from Descartes to Kant, might well be described as a critical engine for insinuating the unavoidable subjectivity of the mind's construction of both the object of knowledge and the object of love" ('Sebbene si possa difficilmente affermare che la letteratura rinascimentale ponga la relazione soggetto/oggetto sulla base ideale dell'indipendenza che conduce da Cartesio a Kant, può esser ben descritta come uno strumento critico per lasciare intendere l'inevitabile soggettività della costruzione mentale sia dell'oggetto di conoscenza che dell'oggetto d'amore') .

Il capolavoro di Cervantes contiene due allegorie: un'inversio, in cui Don Chisciotte immagina il mondo ideale riflesso in quello reale, e una conversio, in cui il mondo del romanzo conduce alla fede cristiana. Questo spiega perché i critici che vedono solo un'allegoria (per Nabokov, per esempio, esiste solo l'inversione; per Unamuno, invece, esiste solo la conversione) non possono comprendere Cervantes. Più vicino alla verità è il critico che scorge nel libro "l'ultimo e più grande poema epico" e "il primo e più grande romanzo". Ma il Don Chisciotte è veramente un poema epico? Ed è veramente un romanzo? In realtà, non è nessuno dei due, se con quei termini indichiamo, rispettivamente, qualcosa di tragico e qualcosa di realistico. Se, tuttavia, aggiungiamo il termine "comico", allora il Don Chisciotte è sia un poema epico sis un romanzo. Torniamo ora alla questione della sua allegoria.

Poiché tutti noi concordiamo nel considerare Don Chisciotte come un idealista e Sancho come un realista (i loro ruoli sono, ovviamente, reversibili), non ci dilungheremo su questo punto. Se l'opera è allegorica, possiede anche i requisiti necessari per essere un poema epico, ossia è mitica, teologica, storica ed esperienziale? Nel Racconto del capitano prigioniero, Cervantes ripete chiaramente la propria esperienza. Gli studiosi hanno dimostrato che il libro riflette la storia della Spagna del XVI secolo. La teologia cristiana è onnipresente, sia in forma di parodia che di seria dottrina. Ciò che rimane è identificare il suo mito dominante, ma senza ricorrere alla mitologia anteriore. Il mito è proprio Don Chisciotte, l'uomo e il libro. Dalla sua personale "esperienza" kantiana, Cervantes ha creato un poema epico.

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Malgrado la sua erudizione classica, Milton è profondamente in debito con la teoria rinascimentale italiana per avergli fornito le basi per la sua impresa. Il pastoralismo del Paradise Lost, per citare un solo esempio, sarebbe impensabile senza la classificazione di Minturno dei soggetti epici da leggere, in ordine ascendente, eroico, filosofico, bucolico, assieme all'esempio di lunghe opere pastorali da parte di Sannazaro, Tasso, Sidney, Spenser e altri ancora. Milton segue Minturno nello sminuire i temi marziali a favore di un "argument / not less but more Heroic", un argomento che sia filosofico nelle sue speculazioni cosmologiche, teologiche ed etiche, e bucolico nella sua scelta dell'Eden come luogo dell'azione. A conclusione di questa elevazione del pastorale da uno status umile a uno status ideale, René Rapin, nel 1659, mentre Milton sta componendo il suo poema epico, ridefinisce lo stile come "un'immagine perfetta dello stato d'innocenza".

Avendo riassunto la nuova teoria allegorica di Tasso sull'epica, applichiamone ora le idee principali al Pardise Lost, visto che i temi cristiani e la tecnica allegorica di Milton devono molto a questo rielaboratore del genere. Particolarmente importante è la sanzione del critico italiano delle azioni divine come soggetto d'imitazione epica, poiché la volontà di Dio e la parola di Cristo appariranno in maniera notevole, la prima nel Paradise Lost, la seconda nel Paradise Regained. Inoltre, la visione tassiana del meraviglioso serve a stimolare lo sviluppo del fantastico macchinario allegorico di Milton: Paradiso e Inferno; Dio, Satana e gli Angeli; le battaglie celesti e altri temi fantastici. La sua concezione d'eroismo, come è riflessa nell'Adamo prelapsariano e nel Cristo divino, rispecchia la memoria cristiana di Tasso della prescrizione aristotelica: ammirevoli agenti della più alta virtù e pietà. Come Castelvetro, Milton preferisce ciò che per il fondamentalista biblico è un soggetto storico, ma, come Tasso, predilige l'invenzione come mezzo per trattarlo. Tramite il concetto d'immaginazione, Milton crea un'imitazione verosimile dell'universale. Tasso aveva detto che la più alta verità epica verrà trovata nella storia cristiana, che Milton assume come struttura teologica per la delineazione di eventi umani dalla caduta di Adamo, al regno di Cromwell, al secondo Avvento di Cristo. Il suo poema combina due dei temi suggeriti da Tasso: l'amore e la fede. Anche se Milton non fa alcun commento sulle asserzioni teoretiche dell'italiano, possiamo comunque immaginare il suo plauso a due dei concetti tassiani: che il poeta epico plasma il suo poema come Dio plasma la sua creazione; e che la verità più alta che egli anela è la verità degli Universali. Pertanto Milton agisce sulla sua creta biblica per creare una visione della sua storia la cui allegoresi universale ne trascende il contesto. In che altro modo, dalla sua prospettiva comparatista, il cristiano inglese moderno avrebbe considerato tali eventi se non universalmente veri?

Il Paradise Lost tratta principalmente di Adamo ed Eva, i nostri primi genitori secondo il mito biblico che Milton ha ricevuto. Allora perché noi, con il nostro concetto darwiniano di evoluzione, siamo ancora così affascinati da tale storia? Perché questa favola allegoricamente livellata agisce su di noi in altre maniere. Adamo ed Eva rappresentano i nostri genitori reali, dalla cui disposizione ereditaria noi discendiamo e dalle cui scelte etiche noi abbiamo tratto benefici o sofferenze. Inoltre, Adamo ed Eva rappresentano noi stessi (Eva per le donne; Adamo per gli uomini), come anche i nostri partner (Adamo per le donne; Eva per gli uomini). Di conseguenza, questo dramma domestico e personale esercita un fascino più diretto di molte altre storie epiche. Come fece Virgilio con Didone ed Enea, così anche Milton è ambiguo sul fatto se Adamo ed Eva siano sposati (non c'erano Chiese nell'Eden). Al di là di questi livelli, e forse più in profondità, c'è la configurazione psicologica della storia. Per usare termini freudiani, Dio appare come un austero Super-ego, Satana come un Id ribelle; passando ai termini junghiani, Adamo ed Eva creano una figura androgina conosciuta allo stesso modo dal mito e dalla psicologia: per le donne, un sé e un Animus; per gli uomini, un'anima e un sé. In tutto ciò notiamo che, eccetto che per il lettore casto o omosessuale, le relazioni descritte da Milton sono universali. Avrebbe potuto sapere che avrebbe trovato degli accaniti lettori in tutto il mondo? Non c'è alcun dubbio. Milton era uno studente dell'universalità, un esegeta allegorico e un allegorista praticante degli archetipi.

Come Tasso ridefinisce il genere, Paradise Lost è fondamentalmente allegorico. La sua "Idea" è la dottrina del peccato originale, la sua teologia l'elaborazione di quel germe che si trova nel dramma della caduta, della cacciata dall'Eden e della seguente redenzione dell'uomo. Le sue figure allegoriche esistono a livelli compenetrantisi, e richiedono al lettore un coinvolgimento interpretativo che lo conduce teoreticamente alla conversione, se non è già convinto del credo di Milton. È talmente ovvio. Più interessante è il metodo stilistico richiesto dal soggetto miltoniano. Perché, malgrado il suo debito nei confronti di Omero, Virgilio e Ovidio, e la sua assimilazione di Dante, Tasso e Spenser, Milton dovette farcela da solo quando si trattò di scrivere i suoi poemi epici. (A questo proposito, Paradise Regained, con la sua forma senza precedenti, deve esser stata una sfida ancor più grande di quanto lo fosse stato Paradise Lost). Tasso aveva elevato lo status del romanzo medievale. In un certo senso, il suo schema di agon, pathos e anagnorisis è più inerente al Paradise Lost di quanto lo siano i modelli dell'epica e della tragedia classica. Il capolavoro miltoniano è anche un'epica teatrale, fondata sulla tradizione italiana della sacra rappresentazione, i cui interpreti principali mettono in scena una baldoria d'amore con conseguente caduta. I masque, e gli spettacoli all'aperto storici e profetici, tutte forme allegoriche, forniscono dei modelli per l'opera miltoniana, essenziali tanto quanto quelli dell'epica o del romanzo.

Il fatto che Milton scelse un soggetto biblico, impose la sua particolare soluzione. Leland Ryken osserva: "Gli scrittori cristiani di storie eroiche si sono battuti per secoli e secoli al fine di riconciliare le tradizioni teologiche e letterarie dell'eroe", nei poemi epici della "guerra santa", come quelli di Tasso; nelle "allegorie romanzesche", come quelle di Spenser; nella "poesia divina", come i poemi biblici dei contemporanei di Milton. Per Ryken e altri, la stessa Bibbia, considerata come un poema epico, fornisce un altro importante modello, non solo per la sua narrazione epica ma anche per le sue tradizioni di allegorizzazione. Inoltre, Ryken sostiene che: "Nelle epiche della Genesi, dell'Esodo e della Rivelazione, Milton trovò uno schema, rispettivamente, per la sua sostituzione di valori domestici con valori eroici, per la sua sostituzione della forza divina e della debolezza umana con il tema epico della gloria umana, e per la sua sostituzione delle versioni spirituali con quelle fisiche di alcuni temi epici molto comuni". Questo brillante studioso cita la definizione data da Ian Watt del Paradise Lost: "the greatest and indeed the only epic of married life" ('il più grande e in effetti l'unico poema epico della vita coniugale'). Come Cervantes, Milton è una figura a cavallo di due epoche, che raccoglie avidamente tutto ciò che è stato fatto prima di lui, ma che, con la stessa vitalità, prepara la strada a tutto ciò che seguirà.

Allora, in che modo il progetto miltoniano è conforme alla nostra definizione di epica? Più fondamentalmente mitico e più ampiamente teologico di quello di Spenser, il modello di Milton è anche più globalmente storico di ogni altro modello precedente. Possiede molti altri aspetti allegorici oltre a quelli già osservati: i suoi episodi allegorici rispettano il principio di attinenza e discordanza; il suo discorso grandiosamente astratto mantiene una distanza allegorica dalla sua semplice storia; allo stesso modo, il suo narratore sostiene una tensione tra i suoi elementi verosimili e quelli meravigliosi; è psicologico e anche etico. In breve, come i poemi epici di Dante e Spenser, il Paradise Lost è esperienziale, anche se in un modo che i lettori inglesi non riusciranno a capire appieno finché Blake, Wordsworth e Byron non manifesteranno le implicazioni dell'innovazione miltoniana.

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Allegory belongs to the fallen world, the world of Plato's caved wellers; it is an invention of mind on its own, trying to make sense of experience in a benighted world.
(L'allegoria appartiene al mondo caduto, il mondo dei cavernicoli di Platone; è un'invenzione della mente da sola, che cerca di capire il senso dell'esperienza in un mondo immorale.)
Isabel G. MacCaffrey

Come critici, non possiamo vivere senza definizioni, poiché il criticismo è un ramo della filosofia, e la filosofia, perlomeno quella occidentale, inizia con le definizioni. Nonostante ciò, risulta inutile stringere il cappio della definizione attorno al collo della letteratura, specialmente quando i termini definiti sono l'allegoria e l'epica. Non è nell'interesse della letteratura, né della filosofia, né del criticismo, farlo. Secondo la definizione data da Isabel G. MacCaffrey, Byron è un allegorista in un senso sia antico che nuovo. Figura estremamente interessante, brillante come critico tanto quanto Tasso fu brillante come teorico, Byron è un praticante persino più innovativo di Milton. Se solo fosse vissuto abbastanza per scrivere i cento cantos programmati invece dei soli sedici che abbiamo in nostro possesso. Si potrebbe supporre che, se non avesse perso la testa dopo aver visitato Parigi per assistere alla rivoluzione, Don Juan avrebbe potuto accompagnare Byron lungo viaggi ancor più universali: in America, in India, in Cina. In un certo senso Whitman e Pound mantengono queste promesse. In un altro senso, si seppelliscono nei libri. Quando la MacCaffrey parla di esperienza, non si riferisce al tipo di esperienza kantiana.

Anche se, in un certo senso, ogni scrittore ha un progetto con finale aperto - la sua vita, la sua opera in corso - Byron interpreta letteralmente questo aspetto e pone fine alla chiusura che caratterizza l'epica da Omero a Milton. In questo senso, i suoi precursori sono Ovidio e Ariosto. Di conseguenza, egli si trova tra coloro che Pound definisce gli scrittori che saranno sempre letti, sia che vengano insegnati a scuola o meno. Giovane critico, Byron non può decidere se appartiene alla linea di Omero, Virgilio e Dante (egli sta pianificando la sua "panoramic view of hell") o alla linea che egli sa più vicina a sé, costituita da Milton, Dryden e Pope. Byron considera Milton l'apostolo della libertà, sebbene la sua rielaborazione di Adamo in Juan dimostri che lui ha compreso anche l'importanza del poeta. Egli stesso non è così tanto Omero quanto Odisseo, perché Byron eguaglia Juan che eguaglia Odisseo. Il suo poema è autobiografico e filosofico, ma anche epico e mitico (non è un caso che egli abbia scelto Don Juan come suo eroe). Come Milton, Byron è uno studente della Genesi, che, assieme a Esiodo, Lucrezio e Ovidio, influenza la sua decisione di "begin with the beginning" (ossia, con la nascita di Juan), una mossa che libera e impoverisce, in quanto restringe la molteplicità delle prospettive altrimenti disponibili al poeta che inizia in media res. Una volta utilizzato il triangolo edipico, Byron decide di usarlo di nuovo. Personalmente, sospetto che egli abbia commesso un incesto non solo con la sorellastra ma anche con sua madre (si veda l'incontro di Juan con Caterina la Grande). Forse l'incapacità di Byron di risolvere il complesso di Edipo è un risultato di un evento talmente orribile; a ogni modo, è rimasto irrisolto. In un'opera con finale aperto come il Don Juan, tutto può esser cambiato, oppure nulla, poiché i termini fondamentali di un tale poema epico non sono mai stati determinati. È significativo che il mito di Don Juan sia esso stesso ripetitivo e con finale aperto. Sebbene la teologia lo porti a termine, Byron non vive abbastanza per finire la propria versione della storia. Nel Don Juan la storia è presente, ma la storia presente è una contraddizione in termini, e così cede il passo all'esperienza, di per sé una base inadeguata per l'epica, come il romanzo ha dimostrato.